Oggi sono entrata in un piccolo caseificio, quello dove vengono modellati i formaggi Zafferano Agnes.
Sono sempre al Macchiapiede, a raccogliere storie di persone che hanno dedicato la vita alla professione che amano ed ora fanno parte del processo di produzione di Agnes. Mi dicono di andare a vedere il caseificio, che potrei trovare qualcosa di interessante, e mi indicano il punto vendita dell’attività, dove si vendono i prodotti Zafferano Agnes, ma anche altri formaggi come caci e ricotte.
Mi precipito, perché so che da poco è arrivato il casaro, il Signor Michele, e sono pronta a sbirciare nel suo regno.
Entro, svolto dopo l’espositore e la cassa, e temo subito di slittare per terra e battere la testa perché per terra è bagnato.
So che qua, nel Vallo di Diano, tutti i ragazzi e le ragazze della mia età sono familiari con l’aspetto e la struttura di un caseificio, ma io vengo da Firenze, e al massimo posso conoscere come ordinano le marche di mozzarelle e stracchini al supermercato sugli scaffali (le più note stanno sempre davanti ai nostri occhi, mentre le meno costose in basso).
Mi pare un bagno, un bagno molto ampio con piastrelle bianche e canaline, tubi e grandi pentole di metallo ai lati. D’un tratto, concentrata a non scivolare vedo che l’acqua straborda da vasche trasparenti. L’odore è forte, ma temevo fosse peggiore. Infatti in poco tempo mi abituo e mi scordo dell’aria calda proveniente dalle pentole, e dell’odore pungente.
Il Signor Michele sembra felice di avere spettatori e in poco tempo mi spiega come fare ricotta, cacio, trecce, ma anche la mozzarella.
Il cervello si separa in cinque parti adesso: tieni ferma la mano occupata a filmarlo, cerca di non scivolare, ascolta e cerca di capire e memorizzare tutto, guarda e ammira ogni particolare e goditi questo momento di condivisione.
Da una vasca il casaro prende il caglio della sera precedente, prodotto con il latte della stalla Macchiapiede. Ne taglia una porzione con una specie di falce sottile, e la pone dentro una grande bacinella metallica, u’cupiello. Versa al suo interno dell’acqua bollente, prodotta da un tinozzo accanto a lui e con un mestolo più grande del normale, inizia a girare.
Mi perdo nel suo movimento circolare e nella sua storia che fa più o meno così:
-Ho iniziato questo mestiere a 13 anni, e ora ne ho quasi 65 signorina. La mia famiglia era di casari ma questo è un lavoro che non puoi fare se non ti piace. Ed ora non guardate qui signorina che in questo piccolo caseificio le mostro come si lavorava sessant’anni fa, ma non mi posso lamentare sa? La tecnologia ha portato macchinari nuovi che risparmiano tanta fatica. Ma il sapore non è più quello di una volta, non per le macchine ma proprio il latte signorina. Non ha più sapore. Lo pastorizzano, il mangime, fermenti e roba chimica per produrre in maggior quantità. Ma poi manca il sapore. Il latte nei caseifici più grandi arriva anche dalla Germania, anche da più lontano. Anche quarant’anni fa il latte era massimo massimo del Potentino. Questo menomale no, questo è tutto della stalla del Macchiapiede.-
Smette di mescolare, e adesso cambia l’acqua, per andare a rafforzare la pasta che si sta creando. Poi mi guarda, si ferma e mi fa: Signorina lo sa perché si chiama caciocavallo? I monaci l’hanno chiamato così. Eh sì prima si chiamava solo cacio, poi un giorno questo monaco lo appese ad un bastone, e notò che il formaggio stava a cavallo di esso. Da qui caciocavallo. Che poi sti monaci hanno inventato tutto-
Adesso nella bacinella si è formata una pasta uniforme, che inizia a tirare utilizzando quel lungo mestolo. Mentre osservo la sua egregia manualità, sviluppata in quasi cinquant’anni di esperienza, torna a parlarmi della sua famiglia. I suoi genitori e zii facevano formaggi di tutti i tipi. Mi parla poi del Cacio dell’Emigrato, ed è come se mi aprisse una finestra su un pezzo di storia di cui so, ma mai abbastanza. Durante i fenomeni di emigrazione della prima metà del Novecento dall’Italia all’America, i migranti non potevano entrare negli USA con salami o soppressate. Il Cacio dell’Emigrato nascondeva all’interno i salumi, per farli arrivare in America e poter far gustare le prelibatezze della terra d’origine anche lontano da casa ai nuovi arrivati.
Pensate che i genitori del Signor Michele dentro i caci nascondevano anche fedi nuziali, ori e gioielli vari, sempre merce che in America, non poteva arrivare. Così ho scoperto che esisteva un cacio d’oro anche prima di Zafferano Agnes.
-Adesso- mi dice- a questa pasta le do la forma del caciocavallo.- lo osservo con stupore e ammirazione, proprio io che faccio fatica a maneggiare il Pongo.
Lo bagna per raffreddarlo e lo immerge in una cassa con acqua, plasma nel frattempo con maestria e velocità un altro caciocavallo, immerge anche questo, prende un chiappo (una cordicella) e lega entrambi i formaggi con essa. Li passa in una vasca d’acqua fredda, li lascia riposare, e infine li pone nella vasca con acqua e sale, in salamoia.
Mi invita ad andarlo a trovare dove lavora, e mi promette che mi farà assaggiare anche le mozzarelle. Non ha potuto mostrarmi come fare il cacio allo zafferano perché la pasta composta dal caglio di ieri sera era cresciuta troppo, ma mi ha confidato che basta inserire gli stimmi macerati poco prima di dare la forma al cacio.
Vorrei ascoltarlo per ore parlare dei sapori e delle usanze dell’arte casearia che ama tramandare, con i suoi aneddoti e i suoi modi di dire da casaro, come dice lui. Purtroppo devo scappare a scrivere tutto ciò che mi ha raccontato, per paura di dimenticarmi informazioni, o semplicemente le parole in dialetto che mi ha insegnato.
Lo ringrazio e faccio per andarmene, ma lui mi richiama con una treccia in mano e mi fa: Signorina non si dimentichi questa- e la ripone nella cella frigorifera.
Così anche oggi la mia curiosità ha mangiato e si è nutrita di pezzi di storia e tradizione, gli stessi di cui si alimenta Zafferano Agnes per la creazione dello speciale Cacio d’Oro.
Presto credo che mi alimenterò anche di una treccia fresca fresca di giornata.
Martina Gambardella